uno spettacolo di e con
PINO PETRUZZELLI
produzione e aiuto regia
paola piacentini
luci e suono
francesco ziello
elemento scenico
cesare viel
musiche
johannes brahms
una coproduzione
teatro ipotesi
teatro stabile di genova
Daniel si bloccò come attratto da qualcosa.
“Ti piace la genziana?” Mi chiese.
“Non la conosco, l’ho solo sentita nominare.”
“Davanti a noi. Blu. Su quella roccia. Che strano fiore, cresce sempre in mezzo alle difficoltà. Chissà perché. Tanto spazio e lei va sulla roccia. Forse perché lì c’è più caldo. O forse perché lì può risplendere. Fatica e dono. E’ così piccola, semplice e allo stesso tempo grande. Come la vita.”
Pino Petruzzelli veste i panni di un “uomo artigiano” che sceglie di ripartire attraverso un diverso modo di intendere il lavoro e la vita. Così, nel suo ristorante, tra monti, pini, larici, neve e valanghe, propone solo ricette a chilometro zero.
Ma come è arrivato lassù a 2.000 metri di altitudine?
E perchè proprio lì ha voluto il suo ristorante così fuori dall’ordinario?
Chilometro zero racconta l’Odissea di un uomo di oggi.
Una vita segnata da tanti stop e da altrettante ripartenze.
“Chilometro zero” parla di noi, delle nostre vittorie, delle nostre sconfitte e soprattutto della forza di rialzarsi sempre. La grandezza della vita non sta nel numero di vittorie ottenute, ma nel numero di volte in cui si è avuta la forza di rialzarsi e ripartire. Lo spettacolo è un inno alla vita che coinvolge e diverte al ritmo inarrestabile della recitazione di Petruzzelli e delle Danze ungheresi di Brahms.
LA TRAMA (con assaggi di testo)
Dalla nativa e sperduta Val Graveglia il protagonista si ritrova al Cep di Genova Prà, in un appartamento con vista sulla A10 Genova Ventimiglia, direzione Ventimiglia.
“Il condominio era formato da nove palazzi uguali e messi in riga: tre per fila. Ogni piano del palazzo aveva quattro famiglie. Ogni famiglia era composta da due genitori, due o più nonni e quattro o più figli. In media dodici persone per famiglia. Così nel palazzo eravamo 384 e in tutto il condominio 3.456. Circa lo stesso numero di abitanti della Val Graveglia. Solo che là stavamo più larghi.”
Primo stop. Da povero di campagna si trasforma in emarginato di periferia. Ma tra contrabbandieri, radio a tutto volume e improbabili devozioni, conosce un bambino napoletano della sua età, la madre ogni domenica prepara il ragu’. E intorno a quella pentola di rame il protagonista crea un suo spazio e si mette in ascolto.
Poi, quasi per caso, arrivano l’istituto alberghiero e il primo vero maestro di cucina: “La ripetizione di un gesto nel tempo è la base di una buona cucina. E’ un rito che solo il buon cuoco capisce. Per il pressappochista la ripetizione è noia. Il cuore ripete sempre lo stesso movimento, ma quel ripetere è ogni volta nuovo. E quel nuovo è vita.”
E finalmente ecco gli ingaggi. Prima lavapiatti e poi cuoco. E poi altri stop e altrettante ripartenze che lo portano in una valle ancora più sperduta della nativa Val Graveglia: la Val d’Ultimo. Lì, inaspettata, arriva una proposta dalla mensa dell’ENEL: cucinare per gli operai che lavorano alla diga del lago di Fontana Bianca, in cima, dove tutte le strade finiscono.
“Era un posto fuori del mondo. Attraverso un percorso tutto curve e tornanti, si arrivava ai 2.000 metri di Fontana Bianca. La strada, era nota soprattutto per le valanghe di neve capaci di prendere alla sprovvista chiunque.
“Inverno scorso, due turisti ritrovati morti sotto neve.”
“Scusa, ma quanta gente vive a Fontana Bianca?”
“Residenti iscritti anagrafe?”
“Si, residenti iscritti all’anagrafe.”
“Zero.”
Ma “l’alternativa è starsene in casa a contare grani di sale sulla tavola della cucina.”
E così riparte di nuovo, come sempre, da zero. A Fontana Bianca non trova solo un lavoro. Trova di più. “Davanti a me un piccolo lago. Verde, per il riflesso di pini e larici. Intorno monti. Poi neve. La luce bianca della neve. Limpida. Abbagliante. Per il resto solo l’azzurro del cielo. C’era silenzio, non solitudine. Pensai alla mia fidanzata nell’enoteca e fast food “Le wine chic” di Milano Precotto, ai miei genitori nell’appartamento di Genova Prà vista A10 Genova Ventimiglia, direzione Ventimiglia e alle vongole marce che avrei dovuto servire nell’ultimo ristorante dove avevo lavorato. Mi chiesi cosa era più reale tra il mio passato e ciò che stavo vedendo.”
Qui sente che, solo rispettando il ritmo lento dell’approfondimento e scendendo in profondità fino alle radici, è possibile rimettersi in contatto con il vero equilibrio naturale e umano. Intuisce che quel qualcosa lui può farlo con l’ausilio del proprio lavoro e riparte da lì.
Ma la mensa chiude e lo spettro della disoccupazione torna a fare capolino. Improvvisa e provvidenziale, un’idea: rilevare la mensa e farne un ristorante a chilometro zero. “Forse, prima che finisca, sono riuscito a prenderla questa vita.
Niente cucina internazionale, solo sapori unici. Tipicità. Che senso ha proporre a un turista di Palermo, spaghetti con le sarde? Quelle le mangia a casa sua. Qui siamo in mezzo ai monti. Lui arriva pensando di fare solo delle belle passeggiate e invece scopre che in un ristorante a 2.000 metri si può mangiare da dio. La sua vacanza sarà completa e tornerà.
La nostra cucina sfornerà piatti semplici e con tanti fiori. Una povera e coloratissima frittata. Interno morbido, esterno dorato. Uova, formaggio vaccino di latte crudo e non stagionato, sale, pepe e fiori: primule, viole, margherite, rododendri e genziane. Immagina il piatto: bianco, piano e a falde larghe. In una metà sistemiamo rombi colorati di frittata e nell’altra, una genziana fresca e un rametto di cirmolo. Niente di più.
Qui non ci sono pesci di mare, ma abbiamo quelli d’acqua dolce, e poi carne, formaggi, latte, salumi, verdure, segale, funghi, bacche, frutta e aromi. Le materie prime fresche arrivano in cucina nell’arco di un’ora. Spendendo la stessa cifra possiamo offrire piatti migliori, più sani e in cucina divertirci di più.”
Riscopre i gusti e i prodotti del territorio e, realizzando piatti straordinari e semplici allo stesso tempo, ritorna all’essenzialità del chilometro zero. E la mensa si trasforma in ristorante e, piano piano, il lavoro si fa conoscenza, sapienza e infine maestria.
“La maestria designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all’artista; anche la nostra attività di genitori migliora, se è praticata come un mestiere specializzato, e così pure la nostra partecipazione di cittadini.” Richard Sennett
“Mi piace lavorare, selezionare l’uva nel corso dell’estate e portare in cantina solo quella perfetta, sana. Da giugno fino al giorno della vendemmia io e mio padre passiamo in vigna con il
coltellino e togliamo dai grappoli gli acini spaccati dal sole o da un’improvvisa grandinata, o semplicemente ammaccati. E’ una forma di rispetto per il lavoro e per chi berrà il nostro vino.”
Pino Petruzzelli
RASSEGNA STAMPA
“L’assolo di Pino Petruzzelli trascina dall’inizio alla fine con una forte carica di coinvolgimento.”
Etta Cascini (Sipario)
“Chilometro zero ha tutti i numeri per fare molta strada… Il pubblico, anche giovane, ringrazia Pino Petruzzelli tributandogli un trionfo.”
Silvana Zanovello (Il Secolo XIX)
“Si esce ricchi, come quando si sono incontrate persone vere, che nella loro semplicità ci hanno mostrato se stessi, il loro sguardo sulle cose e alcuni tra i valori fondanti della vita… Memorie che arrivano immediate, senza tramiti all’orecchio e spaccando il cuore, suonano epiche.”
Laura Santini (Mentelocale)
“Pino Petruzzelli è un teatrante e scrittore di grande forza, il suo percorso artistico, sia come autore sia come attore, muove su una linea costante in continua ascesa.”
Umberto Rossi (Cinema e Teatro)